“Le ali della libertà” di Frank Darabont

(USA, 1994)

Devo essere onesto: mi sono sempre tenuto a distanza dai film che promettono di essere edificanti o, peggio ancora, “di grande ispirazione”. Troppo spesso, questo tipo di pellicole si rivelano moraliste, ricattatorie, o addirittura melense. Ma poi, arriva “Le ali della libertà” (“The Shawshank Redemption”), diretto da Frank Darabont, che con un colpo magistrale riesce a sfuggire a tutte queste trappole, consegnandoci un film che, pur toccando corde profondamente umane, non scade mai nel facile sentimentalismo.

Il film, non a caso tratto dal racconto del Re Stephen King “Rita Heyworth e la redenzione del carcere di Shawshank” (contenuto nella mirabile raccolta “Stagioni diverse” del 1982, che annovera anche “The Body” da cui Rob Reiner ha tratto “Stand By Me – Ricordo di un’estate” e “L’allievo” dal quale Bryan Singer si è ispirato per il suo omonimo film interpretato da un agghiacciante Ian McKellen), si concentra sulla storia di Andy Dufresne (un Tim Robbins davvero in stato di grazia), vice presidente di banca condannato ingiustamente per l’omicidio della moglie e del suo amante.

Da qui ci si potrebbe aspettare un dramma giudiziario o una classica storia di vendetta. E invece no. “Le ali della libertà” sceglie un’altra strada, più sottile, più lenta, ma anche più incisiva. La prigione di Shawshank, che in qualsiasi altro film sarebbe semplicemente lo sfondo di una vicenda di soprusi e violenza, qui diventa un luogo di crescita, un campo di battaglia per l’anima.

Darabont, alla sua prima prova da regista, ha la saggezza di non forzare mai la mano. La sua regia è discreta, rispettosa dei tempi e degli spazi emotivi dei personaggi. La vera forza del film risiede nei piccoli dettagli: lo sguardo sperduto di Andy all’inizio della sua detenzione, l’amicizia che lentamente si costruisce tra lui e Red (un monumentale Morgan Freeman), e il modo in cui la speranza si insinua, quasi furtivamente, tra le crepe della disperazione.

Uno dei temi portanti del film è la libertà. Non quella fisica, che è negata a tutti i detenuti di Shawshank, ma quella mentale, interiore. Andy, pur rinchiuso tra le mura spesse della prigione, riesce a mantenere viva la fiamma della sua dignità e del suo spirito. E lo fa attraverso gesti che sembrano insignificanti: un piccolo sasso scolpito, un vinile delle “Nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart fatto suonare ad alto volume per tutti i carcerati, una biblioteca costruita con pazienza e determinazione. Sono questi gesti che, alla fine, si rivelano rivoluzionari.

La forza del film sta anche nella sua capacità di non cedere mai alla retorica. Anche nei momenti più toccanti, Darabont – autore pure della sceneggiatura – mantiene un equilibrio narrativo che impedisce al racconto di scivolare nel patetico. Questo equilibrio è amplificato dalla splendida fotografia di Roger Deakins, che sa essere tanto claustrofobica quanto ariosa, con i suoi giochi di luce e ombra che sembrano commentare la condizione esistenziale dei personaggi.

E poi c’è il finale. Non lo svelo per chi non avesse ancora visto il film, ma posso dire che è uno di quei finali che ti lasciano con un nodo alla gola e un senso di catarsi. Non perché sia sorprendente o pieno di colpi di scena, ma perché è onesto, autentico. Un finale che rende giustizia a tutto ciò che è venuto prima, e che ci ricorda che la speranza, quella vera, non è mai ingenua o facile, ma nasce dalla sofferenza e dalla resistenza.

Le ali della libertà” non è un film perfetto, ma è un film necessario. Un’opera che parla della capacità dell’animo umano di resistere, di trovare luce anche nell’oscurità più profonda, e di spiccare il volo quando tutto sembra perduto. In un mondo in cui spesso siamo prigionieri di noi stessi e delle nostre paure, questo film ci ricorda che la libertà, quella vera, inizia e finisce nella nostra mente.

Quindi, se non lo avete ancora fatto, prendetevi due ore e mezza, e lasciatevi trasportare a Shawshank. Potreste scoprire che, in fondo, le ali della libertà sono già dentro di voi.

Ascolta gratuitamente questa e altre recensioni su Spotify e YouTube.

“Gone Baby Gone” di Ben Affleck

(USA, 2007)

Dennis Lehane è considerato, giustamente, una delle penne d’oro d’oltre oceano. Dai suoi romanzi sono stati tratti alcuni fra i migliori film degli ultimi anni come “Mystic River” del grande Clint Eastwood o “Shutter Island” di Martin Scorsese.

Non è un caso quindi che per esordire dietro la macchina da presa il premio Oscar per la miglior sceneggiatura – vinto per quella di “Will Hunting” – e star di prima grandezza di Hollywood, Ben Affleck scelga uno dei suoi romanzi, uscito nel nostro Paese col titolo “La casa buia”, e pubblicato per la prima volta in USA nel 1998 col titolo “Gone, Baby, Gone”.

Chicago: la piccola Amanda McReady, di soli quattro anni, è stata rapita dal suo letto mentre la madre Helene si era allontanata solo per qualche minuto. In poche ore il caso arriva sui più grandi network della nazione. Il dipartimento speciale per il ritrovamento di minorenni rapiti della Polizia di Chicago, diretto dal capitano Jack Doyle (Morgan Freeman), si occupa subito del caso.

Doyle è famoso per i suoi risultati, ma anche perché sua figlia dodicenne è stata vittima di un pedofilo. Dopo tre interminabili giorni senza alcun indizio, Beatrice McReady – la zia di Amanda – si rivolge a una coppia di detective privati della zona: Patrick Kenzie (Casey Affleck) e Angie Gennaro (Michelle Monaghan) nella speranza che, grazie alle loro storiche conoscenze, possano avere nuove informazioni sul caso.

Come prevede la Legge, i detective incaricati delle indagini Bressant (Ed Harris) e O’Malley (John Ashton) iniziano a collaborare con i due, che in poche ore ottengono soffiate che donano una nuova luca alla drammatica vicenda. Ma, come dice giustamente lo slogan sulla locandina: “Tutti voglio la verità… fin quando non la trovano”.

Ottima pellicola d’esordio di Ben Affleck che ha i caratteri classici dei grandi blockbuster a cui partecipa come attore, ma affronta temi più incisivi e spinosi, come l’impatto ossessivo e morboso dei mass media sui casi più inquietanti di cronaca nera, e l’immortale dicotomia fra il bene e il male, fra il giusto e lo sbagliato.

Temi che Affleck ha affrontato anche in altre pellicole come per esempio ne “L’amore bugiardo” di David Fincher.