“Happiness” di Todd Solondz

(USA, 1998)

Todd Solondz non è certo un regista che gira intorno alle cose. Anzi, le affronta di petto e lo fa sempre senza paura di sporcarsi le mani, anzi, le sprofonda direttamente nel fango dell’animo umano. “Happiness”, il suo terzo lungometraggio, non fa eccezione, ed è forse il film che più di tutti ha segnato la sua carriera. Un’opera che ha fatto discutere e continua a dividere, grazie (o a causa) della sua capacità di portare sullo schermo le parti più nascoste e inquietanti della società americana, e non solo.

La storia ruota attorno alla famiglia Jordan, il cui patriarca è Lenny (interpretato fa Ben Gazzara) sposato da molti decenni con Mona (Louise Lasser). Le loro tre figlie Trish, Helen e Joy sono l’emblema di un’apparente normalità che nasconde profondi abissi emotivi e segreti inconfessabili. La bella e ricca Helen (Lara Flynn Boyle), scrittrice di successo, è intrappolata in una vita in cui tutto le sembra troppo facile e banale. Sua sorella minore Joy (Jane Adams), invece, è l’eterna perdente, una donna fragile e insicura alla ricerca di un posto nel mondo, che sembra sfuggirle ogni volta che pensa di averlo trovato.

Ma se i drammi di queste due sorelle già mettono in evidenza le contraddizioni della vita borghese, è con i personaggi maschili che Solondz spinge davvero sull’acceleratore. Allen (un grande Philip Seymour Hoffman) è un uomo solitario e socialmente inetto, ossessionato da fantasie sessuali che lo rendono incapace di qualsiasi forma di interazione normale con l’altro sesso. L’altro volto oscuro è Bill (Dylan Baker), marito di Trish (Cynthia Stevenson) padre di famiglia e stimato psichiatra, che nasconde terribili pulsioni dietro la sua facciata rispettabile.

Ciò che colpisce di “Happiness” è come Solondz riesca a trattare temi tabù – la pedofilia, la perversione sessuale, la solitudine e l’alienazione – senza mai cedere alla provocazione fine a se stessa o alla morbosità gratuita. Ogni personaggio, per quanto moralmente discutibile o repellente, è tratteggiato con una tale umanità che diventa difficile giudicarlo con superficialità. Anzi, il regista ci obbliga a guardarli da vicino, costringendoci a confrontarci con le nostre stesse ipocrisie e debolezze.

Il cast è straordinario: Lara Flynn Boyle è perfetta nel ruolo della glaciale Helen, mentre Philip Seymour Hoffman regala una delle sue interpretazioni più intense e scomode, così come sono taglienti i dialoghi fra Lenny e Mona che si ritrovano sull’orlo del divorzio. Ma è Dylan Baker a sorprendere: il suo Bill è un personaggio che lascia un segno indelebile, grazie alla sua capacità di incarnare il male più subdolo sotto le sembianze della normalità quotidiana.

Nonostante la durezza dei temi trattati, Solondz mantiene uno stile narrativo asciutto e freddo, alternando momenti di crudo realismo a sprazzi di humor nero, talmente sottile da risultare quasi impercettibile. È proprio questa miscela a rendere “Happiness” un film così disturbante: lo spettatore si ritrova a ridere di situazioni tragiche o a sentirsi a disagio di fronte a scene che normalmente dovrebbe rifiutare senza esitazione.

Non è un film per tutti. Solondz non fa sconti, non offre redenzione o vie d’uscita. Chi guarda “Happiness” deve essere disposto a confrontarsi con una visione del mondo che mette a nudo le peggiori fragilità umane. Ma per chi è disposto a intraprendere questo viaggio scomodo, il film regala una riflessione profonda e sconvolgente sulla natura della felicità e sul prezzo che siamo disposti a pagare per ottenerla.

Un’opera d’arte nel vero senso del termine, che non lascia indifferenti e che, a più di vent’anni dalla sua uscita, continua a essere un punto di riferimento per il cinema indipendente e per tutti coloro che cercano qualcosa di più di una semplice evasione dalla realtà. Da ricordare anche la colonna sonora, curata da Robby Kondor, che volutamente commenta le scene con musica opposta agli eventi e alle emozioni che provano i personaggi.

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