“I misteri del giardino di Compton House” di Peter Greenaway

(UK, 1982)

Nel 1982 arriva nelle sale cinematografiche britanniche, e poi in quelle di tutto il mondo, la seconda pellicola scritta e diretta dal poliedrico e geniale autore gallese Peter Greenaway, che riscuote in breve tempo un successo planetario.

1694, nella campagna inglese si erge l’imponente tenuta di Compton House di proprietà di Mr. Herbert, tenuta che faceva parte della dote di sua moglie. Mrs. Herbert (Janet Suzman, attrice e registra teatrale sudafricana, che nel 1974 è fra gli interpreti de “Il caso Drabble” di Don Siegel) per omaggiare il coniuge, che sta partendo per un viaggio di affari, decide di commissionare al giovane pittore Mr. Neville (Anthony Higgins che solo qualche mese prima aveva partecipato a “I predatori dell’arca perduta” di Steven Spielberg e nel 1985 diventerà il cattivo nel delizioso “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson e prodotto sempre da Spielberg) 12 disegni della tenuta.

Per accettare la commessa, oltre che il compenso in denaro, Neville esige che nel contratto, redatto in presenza del notaio di fiducia degli Herbert, venga inserita una clausola grazie alla quale lui possa ottenere a proprio piacimento i favori sessuali, incondizionati, di Mrs. Herbert.

Il pittore inizia così le sue opere per le quali pretende che la tenuta venga lasciata libera il più possibile, cosa che incide direttamente sulle numerose attività di servitù e giardinieri, e soprattutto indispone non poco Mr. Talmann (Hugh Fraser) di “imperdonabili” origini tedesche e marito dell’unica figlia degli Herbert.

Mr. e Mrs. Talmann (Anne Louise Lambert, che qualche anno prima aveva partecipato, nel ruolo di una studentessa, al bellissimo “Picnic ad Hanging Rock” di Peter Weir), infatti, vivono a Compton House che, insieme agli altri beni di Mr. Herbert, andrà a loro in eredità solo quando questi avranno un erede; erede che però stenta ad arrivare a causa dell’indolenza e della pigrizia sessuale dello stesso Mr. Talmann.

Mentre le dodici tavole prendono corpo, Mr. Neville nota dei piccoli particolari insoliti sparsi nelle vedute, come una scala per raccogliere la frutta appoggiata alla finestra di Mrs. Talmann, un paio di stivali abbandonati nei pressi del fossato allagato della tenuta, o una camicia da uomo impigliata fra i rami di un albero.

Il suo carattere, che ovviamente si riflette nella sua arte, impone a Neville di riprodurre fedelmente la realtà anche nei particolari che sembrano incongruenti o stonare con l’ambiente circostante. Mentre il pittore sta per terminare le sue opere, il cadavere di Mr. Herbert viene ritrovato nel fossato allagato di Compton House…

Il termine visionario spesso è inflazionato quando si parla di registi cinematografici, ma nel caso di Peter Greenaway, così come in quello di Tim Burton, è senza dubbio il più adatto. Ispirandosi alle opere immortali di Caravaggio, Rembrandt e Vermeer, il regista gallese riesce a creare una potenza visiva sanguigna, carnale e allo stesso tempo elegante e raffinata ancora oggi, ad oltre quarant’anni di distanza.

Sull’interpretazione della pellicola è stato detto e scritto molto, ma lo stesso autore ha sempre avallato quella che si riferisce alle invalicabili differenze fra le classi sociali. La classe dominante, più facoltosa e opulenta, può anche fingere di accogliere il frutto di una “inferiore”, come in questo caso è Neville, e subirne il fascino, ma alla fine se lo fa è solo per il proprio interesse; è perché ne ha bisogno in quel determinato momento per i propri scopi, anche i più segreti ed infidi, e certo non si fa troppi scrupoli alla fine nell’usarlo e poi masticarlo.     

Lo stesso Greenaway, in una intervista sul film, disse: “Neville ritrae ciò che vede e non ciò che sa”.

Altra chiave di lettura è indubbiamente il cinema nel cinema, il racconto nel racconto, il quadro in un quadro, che ci riportano, per esempio, allo straordinario “Blow-Up” del maestro Michelangelo Antonioni. Come il grande cineasta italiano, Greenaway ci fa riflettere in maniera viscerale e allo stesso tempo sublime sull’arte di narrare, anche per immagini. E così ci chiediamo, per esempio, se una cosa è reale solo perché è stata ritratta, o non lo è se nessuno l’ha riprodotta?      

Da vedere.

“Piramide di paura” di Barry Levinson

(USA, 1985)

Alle soglie del primo centenario della nascita editoriale del più grande ed eccentrico detective di tutti i tempi Sherlock Holmes, avvenuta con la pubblicazione del leggendario “Uno studio in rosso” firmato da Sir Arthur Conan Doyle nel 1887, Steven Spielberg produce una pellicola dedicata all’inedito incontro giovanile fra il detective e il suo futuro amico John Watson, non ancora medico.

Anche se per Doyle i due si conoscono solo nel suo primo romanzo in cui sono adulti, Chris Columbus, autore dello script, se li immagina adolescenti e compagni di scuola. E fra i banchi e le antiche aule di uno dei più prestigiosi college della Londra vittoriana, il giovane Holmes (Nicholas Rowe) dovrà affrontare pericoli mortali ed eventi che segneranno la sua successiva esistenza…

Ispirato all’intera opera di Doyle, ma soprattutto a “Il segno dei quattro” (pubblicato nel 1890) “Piramide di paura” diretto da Barry Levinson è davvero un film divertente e appassionante, soprattutto per i ragazzi o i patiti sfegatati di Sherlock Holmes come me.

Va visto (o rivisto) anche per altri due motivi: è uno dei primi lungometraggi non animati in cui appare un personaggio realizzato interamente in computer grafica, come si chiamava allora. Si tratta del cavaliere che si “stacca” dalla vetrata di una chiesa per inseguire il sacerdote in una delle scene iniziali della pellicola. A realizzarlo è nientepopodimeno che John Lasseter assieme a quel manipolo di geni smanettoni coi quali fonderà la magica Pixar.

Il secondo motivo è perché questo giovane Sherlock Holmes assomiglia incredibilmente tanto a Harry Potter…

Sebbene la Rowling pubblicherà il primo romanzo sul giovane mago più famoso del pianeta solo nel 1997 e la sua riduzione cinematografica arriverà nel 2001, le atmosfere e gli ambienti del college in cui studiano Holmes e Watson ricordano incredibilmente quelle di Hogwarts. E poi lo stesso John Watson (impersonato dal giovane Alan Cox) con la frangetta nera sulla fronte, gli occhiali tondi e gli occhi azzurri (il cui viso si intravede col berretto anche nella locandina del film) sembra proprio il figlio di James e Lily Potter. Ma come è possibile?

Forse potrebbe essere d’aiuto ricordarsi che l’autore della sceneggiatura di “Piramide di paura” è Chris Columbus, autore di script di film come “Gremlins” o “I Goonies“, lo stesso che poi dirigerà i film “Harry Potter e la pietra filosofale” e “Harry Potter e la camera dei segreti”.

Insieme a “Vita privata di Sherlock Holmes” di Billy Wilder, “La soluzione sette per cento” di Nicholas Meyer, “Senza indizio” di Thom Eberhardt, alla serie “Sherlock” di Mark Gatiss, Steven Moffat e Steve Thompson e a “Enola Holmes” di Harry Bradbeer, “Piramide di paura” è una delle migliori opere liberamente ispirate al personaggio immortale creato dal genio di Conan Doyle.

Nei panni del cattivo di turno c’è un bravissimo Anthony Higgins.