“L’amore ai tempi del colera” di Gabriel García Márquez

(Mondadori, 1986)

Gabriel García Márquez, una delle voci più potenti e liriche della letteratura mondiale, ci ha donato con “L’amore ai tempi del colera” un capolavoro che trascende il tempo e lo spazio, esplorando con delicatezza e profondità i misteri del cuore umano. Pubblicato per la prima volta nel 1985, questo romanzo è un inno alla resistenza dell’amore, alla sua capacità di durare nonostante gli anni, le circostanze avverse e le mutazioni della vita.

La storia ruota attorno ai protagonisti Florentino Ariza e Fermina Daza, il cui amore giovanile viene interrotto dalla decisione di Fermina di sposare il benestante dottor Juvenal Urbino. Ma Florentino, determinato e paziente, coltiva il suo sentimento per oltre cinquant’anni, aspettando il momento in cui potrà finalmente reclamare il suo posto accanto all’amata. Marquez ci accompagna in questo lungo viaggio attraverso la vita dei personaggi, dipingendo con maestria le loro vicende, i loro sogni, le loro passioni e le loro delusioni.

Ciò che rende “L’amore ai tempi del colera” un’opera straordinaria è la capacità di rappresentare l’amore in tutte le sue sfumature. Non si tratta solo di una storia d’amore romantico, ma di una riflessione sulla natura complessa e multiforme di questo, spesso incontenibile, sentimento. García Márquez esplora l’amore giovanile, l’amore coniugale, l’amore passionale e l’amore senile, mostrando come questo possa evolversi, trasformarsi e sopravvivere a ogni ostacolo.

Lo stile narrativo di Garcia Marquez è, come sempre, ricco e avvolgente, carico di immagini poetiche e di una sottile ironia che conferisce al racconto una leggerezza che si contrappone alla profondità dei temi trattati. L’ambientazione tropicale, con i suoi colori vibranti e la sua atmosfera languida, diventa un personaggio a sé stante, capace di influenzare e rispecchiare gli stati d’animo dei protagonisti.

L’amore ai tempi del colera” è un romanzo che parla di attesa e perseveranza, ma anche di perdita e disillusione. Márquez non idealizza mai l’amore; al contrario, lo presenta come un sentimento che può essere tanto fonte di gioia quanto di sofferenza, ma che, alla fine, è sempre degno di essere vissuto.

Per chi ama le storie che esplorano i meandri dell’animo umano, “L’amore ai tempi del colera” è una lettura imperdibile. Marquez ci ricorda che l’amore è un sentimento eterno, capace di sopravvivere non solo al passare del tempo, ma anche alle ferite e alle cicatrici che la vita ci infligge. Un’opera che si erge come uno dei pilastri della letteratura mondiale e che continuerà a parlare ai cuori dei lettori per generazioni a venire.

D’altronde, leggere ad intervalli fissi Gabriel García Márquez, è indispensabile per godere di una vita emotiva sana e florida, lo dicono gli esperti!

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“Senza pelle” di Alessandro D’Alatri

(Italia, 1994)

Negli anni ’90 il cinema italiano ha prodotto piccoli capolavori che, purtroppo, non hanno ricevuto l’attenzione che meritavano. Tra questi c’è “Senza pelle“, un film che dimostra ancora una volta la maestria di Alessandro D’Alatri nel raccontare le sfumature dell’animo umano. Il regista, che scrive anche la sceneggiatura per la quale vince il David di Donatello, affronta il tema della diversità, della fragilità mentale e della solitudine in un contesto che oscilla tra il quotidiano e l’intimo, grazie anche a un cast di interpreti davvero eccezionali.

La storia ruota intorno a Gina (Anna Galiena, che per questa interpretazione vince il Golden Globe assegnato nel nostro Paese), compagna di Riccardo, un pacifico autista di autobus metropolitani che ha il volto di Massimo Ghini, con il quale ha un bambino di pochi anni. La loro esistenza, apparentemente ordinaria, viene stravolta dall’arrivo di Saverio (un bravissimo Kim Rossi Stuart), un giovane che vive ai margini della società e della propria stabilità mentale. Saverio, con la sua fragilità, entra ossessivamente nella vita di Gina, mettendo in luce le crepe sottili del suo rapporto col compagno e forse la sua stessa identità.

Il tema della malattia mentale viene trattato con rispetto, senza mai cadere in stereotipi o facili giudizi, e rappresenta il fulcro attorno al quale si sviluppa l’intera narrazione. Il titolo “Senza pelle” allude proprio a questa condizione di vulnerabilità estrema che affligge Saverio e che, in un certo senso, contagia anche gli altri personaggi, costringendoli a confrontarsi con le proprie paure e insicurezze.

Dall’altra parte c’è Gina, una donna che sente addosso il peso della sua invisibilità, sia come compagna che come persona appartenente ad una società che l’ha definitivamente e ipocritamente condannata per avere allacciato una relazione con un uomo sposato, com’era Riccardo quando lo ha conosciuto, e con il quale ha poi voluto avere anche un figlio, cosa per la quale ancora la biasima perfino sua madre.

La sua particolare relazione con Saverio, per quanto complicata e precaria, le dà un senso di esistenza che la vita col compagno forse non riesce più a offrirle. Anna Galiena, con la sua consueta raffinatezza, riesce a donare profondità a un personaggio che potrebbe sembrare superficiale, ma che in realtà non lo è affatto.

Non meno importante è l’ottima interpretazione di Massimo Ghini, che incarna un uomo apparentemente gretto e superficiale, ma che in realtà riesce a capire e amare veramente la sua compagna sostenendola anche nel particolare momento che lei sta vivendo. In piccoli ruoli appaiono anche Luca Zingaretti e Rocco Papaleo. Da ricordare anche il progetto musicale su cui si basa la colonna sonora firmato da Moni Ovadia.

Senza pelle” non è un film per tutti i palati, e forse anche per questo non ha avuto il successo che meritava. Ma proprio per questo è un’opera da riscoprire, capace di rimanere impressa per la sua umanità e la sua struggente dolcezza.

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“Il bacio della donna ragno” di Héctor Babenco

(Brasile/USA, 1985)

Héctor Babenco, con “Il bacio della donna ragno”, ci consegna un’opera di rara intensità emotiva, che travalica i confini del cinema politico per esplorare la condizione umana in tutta la sua complessità. Tratto dall’omonimo romanzo di Manuel Puig – ambientato nell’Argentina sotto la dittatura violenta e sanguinaria di Videla – e scritto per il grande schermo da Leonard Schrader, il film ci immerge nelle angosce e nelle speranze di due prigionieri, offrendo una narrazione che è al contempo intima e universale.

Ambientato in una prigione sudamericana durante un’epoca di repressione politica, il film mette in scena l’incontro tra Luis Molina (uno straordinario William Hurt), un omosessuale incarcerato per immoralità, e Valentín Arregui (Raúl Juliá), un rivoluzionario marxista. Molina, con la sua passione per i melodrammi cinematografici – la cui protagonista è sempre incarnata da Sonia Braga – diventa il narratore di storie che trasportano lui e Valentín lontano dalle mura della prigione. Attraverso questi racconti, Babenco esplora la potenza dell’immaginazione come strumento di evasione e di resistenza.

La regia di Babenco si distingue per la sua capacità di alternare sapientemente momenti di cruda realtà carceraria a sequenze oniriche e stilizzate, in cui le storie raccontate da Molina prendono vita. Questo dualismo conferisce al film una struttura narrativa complessa e affascinante, che cattura l’attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine.

La performance di William Hurt è magistrale, meritatamente premiata con l’Oscar e con il Premio della Giuria al Festival di Cannes. L’attore riesce a incarnare con delicatezza e profondità un personaggio intrappolato tra la sua vulnerabilità e la sua forza interiore. Raul Julia, nel ruolo di Valentín, offre una prova altrettanto potente, rendendo palpabile la tensione tra il suo impegno politico e il legame che si sviluppa con Molina.

Uno degli elementi più riusciti del film è la colonna sonora, composta da John Neschling. La musica non è solo un accompagnamento, ma diventa un vero e proprio personaggio, capace di amplificare le emozioni e di sottolineare i momenti più significativi della narrazione.

“Il bacio della donna ragno” non è semplicemente un film sulla prigionia fisica, ma una riflessione profonda sulla libertà interiore e sulla capacità dell’essere umano di trovare consolazione nell’arte e nell’immaginazione. La pellicola invita lo spettatore a interrogarsi sui limiti e sulle possibilità della mente umana, offrendo uno spaccato di straordinaria intensità sul potere delle storie e quindi anche sul cinema stesso.

In conclusione, Héctor Babenco realizza un film che riesce a essere allo stesso tempo politico e poetico, un’opera che resta impressa nella memoria per la sua forza visiva ed emotiva. “Il bacio della donna ragno” è un capolavoro che merita di essere riscoperto e apprezzato per la sua capacità di parlare all’anima dello spettatore, ricordandoci il potere liberatorio dell’arte, quella vera.

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“Johnny Stecchino” di Roberto Benigni

(Italia, 1991)

Scritta insieme a Vincenzo Cerami, diretta e interpretata da Roberto Benigni, questa pellicola è una commedia che incarna perfettamente lo spirito irriverente e geniale del suo creatore. Con la sua consueta maestria, il cineasta toscano confeziona una storia che mescola satira, umorismo surreale e critica sociale, regalando al pubblico un film che diverte e fa riflettere, anche a distanza di decenni.

La trama ruota attorno a Dante, un ingenuo e bonario autista di scuolabus con una straordinaria somiglianza a Johnny Stecchino, un boss mafioso “pentito” e in fuga. La doppia identità di Dante lo trascina in una serie di situazioni esilaranti e pericolose, creando un vortice di equivoci che rappresenta il cuore comico del film.

Benigni, nella doppia veste di regista e protagonista, brilla con la sua interpretazione di Dante, caratterizzato da una dolce ingenuità e una comicità fisica che ricordano i grandi maestri del passato, come Charlie Chaplin, Buster Keaton e Groucho Marx (quest’ultimo dichiaratamente citato nella sequenza del falso specchio nella credenza in cucina, che richiama quella straordinaria interpretata da Groucho e suo fratello Harpo Marx ne “La guerra lampo dei fratelli Marx” del 1933). La sua capacità di passare dall’umorismo slapstick a momenti di sottile satira sociale è ciò che rende “Johnny Stecchino” un’opera unica nel panorama cinematografico italiano.

Accanto a Benigni, troviamo Nicoletta Braschi nel ruolo di Maria, la donna che architetta il piano per salvare il vero Johnny Stecchino utilizzando Dante come esca. La chimica tra Benigni e Braschi, non solo sullo schermo ma anche nella vita reale, aggiunge una dimensione di autenticità e tenerezza alla loro interazione.

Il film è ricco di scene memorabili e battute che sono entrate nell’immaginario collettivo italiano, come il famoso monologo di Dante sul “problema” che affligge Palermo e la Sicilia (ma la parola “mafia” non viene mai pronunciata), quello del costo delle banane nella città siciliana, o la sequenza in cui lui imita una scimmia. Ma oltre alla commedia, “Johnny Stecchino” offre anche una critica non troppo sottile alla società italiana dell’epoca, in particolare ai temi della criminalità organizzata e della corruzione. Benigni utilizza l’umorismo come strumento per denunciare e riflettere su queste problematiche, senza mai perdere di vista l’intrattenimento.

La colonna sonora di Evan Lurie accompagna perfettamente le vicende del film, sottolineando i momenti comici e quelli più riflessivi con un tocco musicale che arricchisce ulteriormente l’atmosfera surreale della pellicola.

“Johnny Stecchino” è un film che ha saputo conquistare il pubblico con la sua comicità irresistibile e il suo messaggio profondo, dimostrando ancora una volta il talento e la versatilità di Roberto Benigni come attore, regista e sceneggiatore. È una commedia che, a distanza di anni, continua a far ridere e a far pensare, confermandosi come un classico del cinema italiano.

Ridere non vuol dire necessariamente non pensare. La lungimiranza e l’avanguardia di Benigni e Cerami nello scrivere la sceneggiatura è la Storia che ce le conferma: solo qualche mese dopo l’uscita nelle nostre sale del film, il 23 maggio del 1992, cinquanta metri dell’autostrada che collega Palermo all’aeroporto di Punta Raisi, arteria viaria che appare più di una volta nel film, vennero fatti saltare in aria da Cosa nostra per uccidere il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

Il 19 luglio dello stesso anno, in via D’Amelio, una Fiat 126 ricolma di tritolo venne fatta esplodere uccidendo il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

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“Il barone rampante” di Italo Calvino

(Einaudi, 2015)

Pubblicato per la prima volta nel 1957, “Il barone rampante” è uno dei romanzi più originali e affascinanti della letteratura italiana del XX secolo, capace di conquistare lettori di ogni età con la sua inventiva narrativa e le sue profonde riflessioni filosofiche.

La storia è ambientata nel XVIII secolo e narra le vicende di Cosimo Piovasco di Rondò, un giovane nobile che, a soli dodici anni, decide di ribellarsi alle convenzioni sociali e all’autorità paterna, scegliendo di vivere sugli alberi. Una volta salito su una quercia, Cosimo giura di non scendere mai più, e da quel momento in poi, tutta la sua esistenza si svolge tra i rami degli alberi che costeggiano il piccolo borgo ligure in cui è nato.

Accanto a Cosimo si muovono una serie di personaggi che arricchiscono la narrazione e danno vita a un universo variegato e complesso: Viola, il grande amore della sua vita, con la quale intrattiene un rapporto tanto passionale quanto tormentato; il fratello Biagio, che osserva e racconta le sue gesta con affetto e ammirazione; e un susseguirsi di incontri e avventure che lo vedono interagire con contadini, banditi, filosofi e persino con Napoleone Bonaparte.

Il romanzo è un’esplorazione profonda dell’individualismo e della ricerca di libertà, della ribellione contro le convenzioni e della tensione tra il desiderio di autonomia e il bisogno di appartenere a una comunità. Calvino arricchisce la narrazione con simboli e allegorie che riflettono temi universali, rendendo “Il barone rampante” un’opera aperta a molteplici interpretazioni.

Uno degli aspetti più affascinanti del romanzo è la sua struttura, che riflette la scelta radicale di Cosimo di vivere al di fuori delle regole imposte dalla società. La prosa di Calvino è a tratti poetica e sempre carica di ironia, capace di trasportare il lettore in un mondo sospeso tra realtà e fantasia, dove la vita quotidiana si intreccia con l’immaginario, e dove ogni gesto, ogni scelta, assume un significato simbolico.

“Il barone rampante” non è solo una storia di ribellione e anticonformismo, ma anche una profonda riflessione sull’esistenza e sul rapporto tra l’essere umano e la natura. È un romanzo che sfida e stimola il lettore, invitandolo a riflettere su temi come la libertà, la solitudine e la ricerca di senso nella vita.

Calvino, attraverso la figura indimenticabile di Cosimo, ci offre uno specchio in cui riflettere le nostre stesse aspirazioni e contraddizioni, ricordandoci quanto sia preziosa e fragile la libertà di pensare e di essere se stessi. “Il barone rampante” è, senza dubbio, un capolavoro della letteratura mondiale, un libro che continua a risuonare nel cuore di chiunque abbia il coraggio di lasciarsi trasportare tra …i rami della sua incredibile foresta narrativa.

Non è solo una favola, né solo un romanzo di formazione, ma è proprio questa commistione di generi e registri a renderlo un’opera straordinaria, capace di affascinare e ispirare generazioni di lettori, un inno immortale alla libertà e alla fantasia.

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“L’occhio che uccide” di Michael Powell

(UK, 1960)

In una carriera costellata di capolavori, Michael Powell, nel 1960 raggiunge una vetta assoluta con “L’occhio che uccide” – il cui titolo originale è “Peeping Tom”, che si può tradurre col termine “guardone” – un film che ha suscitato sdegno e disapprovazione alla sua uscita, ma che oggi possiamo ammirare come una straordinaria opera di avanguardia e introspezione psicologica. Questa pellicola, al pari delle opere di Alfred Hitchcock, sfida e ridefinisce i confini del thriller e dell’horror.

La narrazione segue Mark Lewis, interpretato con gelida precisione da Karlheinz Böhm, un cameraman ossessionato dall’idea di catturare il terrore puro. Armato di una cinepresa modificata con una lama nascosta, Mark filma i suoi omicidi, trasformando la morte in un’arte visiva. La cinepresa non è solo un mezzo per documentare, ma diventa un’estensione della sua psiche disturbata, una finestra sulla sua anima tormentata.

Powell, maestro nel manipolare il linguaggio cinematografico, ci costringe a diventare complici di Mark, immergendoci nel suo punto di vista distorto. L’uso della soggettiva, l’intensità dei colori e l’illuminazione espressionista creano un’atmosfera di costante tensione, un’esperienza visiva che non permette distrazioni o distacco emotivo. La cinepresa, nelle mani di Powell, diventa uno strumento di introspezione e, al contempo, di condanna.

La tematica del voyeurismo, già esplorata in maniera sublime dallo stesso Hitchcock in “La finestra sul cortile” del 1954, trova qui una rappresentazione ancora più diretta e inquietante. “L’occhio che uccide” non solo ci fa osservare, ma ci interroga sul nostro stesso desiderio di guardare, mettendo a nudo la nostra complicità nel consumo visivo della sofferenza altrui. Questo gioco metacinematografico è condotto con una precisione chirurgica, rivelando la natura predatoria dello sguardo cinematografico.

La performance di Karlheinz Böhm è fondamentale nell’alchimia del film. Il suo Mark Lewis è un personaggio di grande complessità, che evoca al tempo stesso profonda compassione e grande repulsione. Böhm riesce a catturare le sfumature di un uomo intrappolato tra il trauma della sua infanzia funestata dal padre, e la sua ossessione per la paura. Anche Anna Massey, nel ruolo di Helen, offre un’interpretazione di grande sensibilità, rappresentando una luce di speranza nell’oscurità che avvolge inesorabilmente Mark.

Alla sua uscita, “L’occhio che uccide” fu frainteso e aspramente criticato, ma oggi emerge come un’opera visionaria che anticipa temi e stili che diventeranno centrali nel cinema degli anni successivi. Powell ci offre un’esplorazione coraggiosa e senza compromessi della psiche umana, realizzando un film che è al contempo un thriller avvincente e una profonda riflessione sull’atto stesso del guardare, che è l’essenza stessa del cinema.

Questa pellicola merita di essere riscoperta e celebrata, perché è un’opera che sfida le convenzioni e invita lo spettatore a un confronto diretto con i propri demoni interiori, e Powell è un maestro nel manipolare la luce e il colore per creare un’atmosfera di crescente tensione.

Ogni inquadratura è studiata per mettere a disagio lo spettatore, per farlo sentire intrappolato nello stesso incubo di Mark. È un film che non si limita a mostrare il terrore, ma lo fa sentire, lo fa vivere sulla pelle. Michael Powell – che non a caso sceglie di impersonare il padre aguzzino del piccolo Mark – dimostra ancora una volta di essere un maestro del cinema, capace di spingersi oltre i limiti e di esplorare territori inesplorati con una visione artistica unica e inimitabile.

Se avete il coraggio di affrontare le vostre paure, questo è un film che non potete perdere. Ma ricordate: una volta che avrete guardato nell’abisso, come dice Nietzsche, l’abisso potrebbe iniziare a guardare voi…

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“L’assassinio di Roger Ackroyd” di Agatha Christie

(Mondadori, 2011)

Tra i pilastri della letteratura gialla, “L’assassinio di Roger Ackroyd” di Agatha Christie occupa un posto di rilievo, non solo per la genialità della trama, ma anche per l’innovativo approccio narrativo che ha saputo sorprendere generazioni di lettori. Pubblicato per la prima volta nel 1926, questo romanzo ha contribuito a definire il genere, rendendo Agatha Christie una delle autrici più celebrate e influenti del ventesimo secolo.

La trama si sviluppa nell’immaginaria cittadina inglese di King’s Abbot, un luogo apparentemente tranquillo dove la vita scorre placida fino all’assassinio del facoltoso Roger Ackroyd. La storia è narrata in prima persona dal dottor James Sheppard, il medico del paese, che si trova coinvolto nelle indagini condotte dal celebre investigatore belga Hercule Poirot, ormai in pensione e residente nei pressi.

Uno degli elementi che rende questo romanzo un capolavoro è il colpo di scena finale. Senza rivelare troppo per chi ancora non avesse avuto il piacere di leggerlo (abbasso gli spoiler!), Christie sfrutta magistralmente la narrazione in prima persona per depistare il lettore, offrendo un esempio di come il narratore possa essere utilizzato per creare un effetto sorpresa di straordinaria potenza. Questo espediente narrativo ha fatto scuola ed è stato oggetto di numerosi studi e imitazioni.

I personaggi sono delineati con la consueta maestria di Christie. Hercule Poirot, con la sua logica infallibile e le sue eccentricità, si conferma un investigatore di razza, capace di vedere oltre le apparenze e di scoprire la verità celata dai segreti dei personaggi. Il dottor Sheppard, invece, emerge come un personaggio complesso e intrigante, la cui presenza al centro della narrazione è cruciale per il dipanarsi della trama.

Il ritmo del romanzo è sostenuto e avvincente, con ogni capitolo che aggiunge un nuovo pezzo al puzzle, mantenendo alta la tensione e la curiosità del lettore. Le descrizioni ambientali e i dialoghi, sempre vivaci e realistici, contribuiscono a creare un’atmosfera ricca e dettagliata, immersiva al punto giusto.

“L’assassinio di Roger Ackroyd” non è solo un giallo ben congegnato, ma anche una riflessione sulle apparenze e sui segreti che si celano dietro la facciata di rispettabilità della società. Agatha Christie ci invita a non fidarci delle prime impressioni e a guardare più in profondità, un insegnamento che va oltre le pagine del libro.

In conclusione, “L’assassinio di Roger Ackroyd” è un romanzo imperdibile per gli amanti del giallo e per chiunque apprezzi una trama ben costruita, personaggi indimenticabili e un finale che lascia senza fiato. Agatha Christie dimostra ancora una volta di essere la regina del mistero, capace di regalare ai suoi lettori ore di pura suspense e intrattenimento intelligente. Se non l’avete ancora letto, vi consiglio vivamente di farlo: vi aspetta un viaggio nel cuore del mistero che non dimenticherete facilmente.

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“22/11/’63” di Stephen King

(Sperling & Kupfer, 2011)

Nella vasta produzione letteraria del maestro Stephen King, “22/11/’63” si distingue come un’opera che va oltre i confini tradizionali del thriller e dell’horror, per esplorare territori più profondi e complessi. Questo romanzo, pubblicato nel 2011, non è solo un’odissea nel tempo, ma un’esplorazione del destino, del rimpianto e della capacità umana di cambiare il corso della storia, con tutte le implicazioni morali che ne derivano.

La trama ruota attorno a Jake Epping, un insegnante di inglese di una cittadina del Maine, la cui vita ordinaria viene sconvolta quando Al, il proprietario di una tavola calda locale, gli rivela l’esistenza di un portale temporale nel suo retrobottega. Questo varco conduce sempre e solo al 9 settembre 1958. Al, ormai malato terminale, convince Jake a prendere il suo posto in una missione impossibile: impedire l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, avvenuto il 22 novembre 1963.

Il Re ci porta così in un viaggio affascinante attraverso un’America degli anni ’50 e ’60 ricostruita con una precisione quasi maniacale. La descrizione di quel periodo è vibrante, con una cura dei dettagli che fa immergere il lettore in un’epoca diversa, fatta di colori vividi, suoni e odori che sembrano uscire dalle pagine del libro. Ma il romanzo non si limita a essere una semplice cronaca del passato. Attraverso Jake, King esplora la natura del tempo stesso, dipingendolo come qualcosa di resiliente e pericolosamente determinato a mantenere il suo corso.

Uno degli aspetti più intriganti di “22/11/’63” è proprio la rappresentazione del tempo come un’entità quasi viva, che resiste ai cambiamenti. Ogni volta che Jake tenta di alterare eventi del passato, il tempo reagisce, spesso in modi violenti e imprevedibili, quasi a proteggere se stesso. Questa tensione tra il desiderio umano di cambiare il passato e l’ineluttabilità del destino è uno dei temi più potenti del romanzo.

King riesce, come in altri suoi lavori, a fondere elementi di fantascienza con una profonda riflessione sul peso delle scelte individuali. La questione centrale del libro, infatti, non è tanto se Jake riuscirà o meno a salvare Kennedy, ma piuttosto se farlo porterà davvero a un mondo migliore. Il lettore è costantemente sfidato a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, e su come il desiderio di correggere gli errori del passato possa avere ripercussioni inaspettate e, a volte, disastrose.

Il personaggio di Jake Epping è sviluppato con una grande sensibilità. È un uomo comune, con le sue debolezze e le sue paure, che si trova improvvisamente caricato di una responsabilità enorme. La sua crescita personale, il suo amore per Sadie Dunhill, una donna che incontra nel passato, e i dilemmi morali che affronta rendono Jake uno dei protagonisti più memorabili della produzione di King.

In definitiva, “22/11/’63” è un’opera che si distingue non solo per la sua trama avvincente e l’abilità narrativa del Re, ma anche per la profondità delle domande che solleva. È un romanzo che parla di nostalgia, di amore e di perdita, e che esplora il desiderio universale di poter tornare indietro e cambiare il corso della propria esistenza. Ma, come King ci ricorda con maestria, ogni azione ha un prezzo, e il passato, per quanto tentiamo di cambiarlo, è un fardello che portiamo sempre con noi.

Il maestro Stephen King, ancora una volta, ci regala una storia che è tanto avvincente quanto emozionante, capace di farci riflettere sul tempo, sul destino e sulle scelte che modellano le nostre vite.

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“Perfect Days” di Wim Wenders

(Giappone, 2023)

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che sembra distillata dall’essenza stessa del suo cinema: la capacità di catturare la bellezza della vita quotidiana con uno sguardo delicato e profondamente umano. In un’epoca cinematografica dominata dalla velocità e dal rumore, Wenders ci invita a rallentare, a soffermarci sui dettagli più minuti, sulle pieghe del tempo che si srotola in silenzio, offrendo uno sguardo inedito su Tokyo e sui suoi abitanti.

Il protagonista, Hirayama (interpretato magistralmente da Koji Yakusho), è un uomo che ha fatto della semplicità il suo regno. Addetto alla pulizia dei bagni pubblici della città, vive in un appartamento spartano, arredato con pochi, essenziali oggetti. La sua vita è scandita da rituali quotidiani: la cura delle piante, la lettura di libri, l’ascolto di musica su audiocassette. Wenders, con una regia che si fa discreta, quasi invisibile, trasforma questi gesti ordinari in momenti di contemplazione poetica.

“Perfect Days” – la cui sceneggiatura è firmata da Takuma Takasaki oltre che dallo stesso Wenders – non è un film che racconta una storia nel senso tradizionale del termine. Non c’è un conflitto centrale, non ci sono svolte narrative drammatiche. Eppure, c’è una profondità emotiva che si costruisce progressivamente, strato dopo strato, come una fotografia sviluppata lentamente. Wenders ci conduce in un viaggio intimo attraverso le giornate di Hirayama, dove ogni incontro, ogni scambio di sguardi, ogni suono della città diventa parte di un mosaico più grande, un ritratto di un uomo che ha trovato una sua forma di serenità.

La Tokyo di Wenders è lontana anni luce dalle rappresentazioni iperattive e futuristiche a cui siamo abituati. Qui, la città diventa uno spazio di quiete, di riflessione, quasi un personaggio a sé stante, con i suoi angoli nascosti e le sue strade secondarie che sembrano condurre fuori dal tempo, proprio come quella della serie “Midnight Diner – Tokyo Stories”. La fotografia limpida e cristallina curata da Franz Lustig, enfatizza questa dimensione sospesa, restituendo una Tokyo che è al contempo reale e trasfigurata, uno spazio in cui il tempo sembra rallentare per permettere allo spettatore di cogliere ogni sfumatura, ogni dettaglio.

In “Perfect Days”, Wenders riesce a toccare corde profonde senza mai ricorrere a facili sentimentalismi. Il film si costruisce attraverso un minimalismo narrativo che diventa il suo punto di forza. Ogni scena è un frammento di vita, un tassello che si inserisce in un mosaico più grande, quello della ricerca della bellezza nel quotidiano. Hirayama è un eroe del nostro tempo, un uomo che, nel suo silenzio, riesce a trovare una connessione profonda con il mondo che lo circonda, ricordandoci che la felicità non risiede negli eventi straordinari, ma nella capacità di apprezzare i piccoli momenti di cui è fatta la vita.

Wenders non ha paura di lasciare spazio al silenzio, di lasciare che siano i volti, gli sguardi, i movimenti lenti dei personaggi a raccontare la storia. È un cinema che richiede attenzione, che chiede allo spettatore di lasciarsi trasportare in un flusso di immagini e suoni che, pur nella loro apparente semplicità, costruiscono una narrazione ricca di sfumature.

Con “Perfect Days”, Wim Wenders ci consegna un’opera che è al tempo stesso un atto di resistenza e un omaggio all’essenzialità. È un film che parla di un mondo in cui il tempo è tornato ad avere un valore, in cui la bellezza si trova negli atti più semplici, nella ripetizione dei gesti quotidiani. Un’opera che, in definitiva, ci invita a riscoprire la poesia della vita ordinaria, facendoci sentire, almeno per un momento, parte di qualcosa di più grande, di più profondo.

Wenders, con la sua consueta maestria, ci ricorda che il cinema, come la vita, non ha bisogno di essere urlato per essere ascoltato. Basta saper guardare, saper ascoltare, per trovare in ogni giornata un “perfect day”.

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“Le ali della libertà” di Frank Darabont

(USA, 1994)

Devo essere onesto: mi sono sempre tenuto a distanza dai film che promettono di essere edificanti o, peggio ancora, “di grande ispirazione”. Troppo spesso, questo tipo di pellicole si rivelano moraliste, ricattatorie, o addirittura melense. Ma poi, arriva “Le ali della libertà” (“The Shawshank Redemption”), diretto da Frank Darabont, che con un colpo magistrale riesce a sfuggire a tutte queste trappole, consegnandoci un film che, pur toccando corde profondamente umane, non scade mai nel facile sentimentalismo.

Il film, non a caso tratto dal racconto del Re Stephen King “Rita Heyworth e la redenzione del carcere di Shawshank” (contenuto nella mirabile raccolta “Stagioni diverse” del 1982, che annovera anche “The Body” da cui Rob Reiner ha tratto “Stand By Me – Ricordo di un’estate” e “L’allievo” dal quale Bryan Singer si è ispirato per il suo omonimo film interpretato da un agghiacciante Ian McKellen), si concentra sulla storia di Andy Dufresne (un Tim Robbins davvero in stato di grazia), vice presidente di banca condannato ingiustamente per l’omicidio della moglie e del suo amante.

Da qui ci si potrebbe aspettare un dramma giudiziario o una classica storia di vendetta. E invece no. “Le ali della libertà” sceglie un’altra strada, più sottile, più lenta, ma anche più incisiva. La prigione di Shawshank, che in qualsiasi altro film sarebbe semplicemente lo sfondo di una vicenda di soprusi e violenza, qui diventa un luogo di crescita, un campo di battaglia per l’anima.

Darabont, alla sua prima prova da regista, ha la saggezza di non forzare mai la mano. La sua regia è discreta, rispettosa dei tempi e degli spazi emotivi dei personaggi. La vera forza del film risiede nei piccoli dettagli: lo sguardo sperduto di Andy all’inizio della sua detenzione, l’amicizia che lentamente si costruisce tra lui e Red (un monumentale Morgan Freeman), e il modo in cui la speranza si insinua, quasi furtivamente, tra le crepe della disperazione.

Uno dei temi portanti del film è la libertà. Non quella fisica, che è negata a tutti i detenuti di Shawshank, ma quella mentale, interiore. Andy, pur rinchiuso tra le mura spesse della prigione, riesce a mantenere viva la fiamma della sua dignità e del suo spirito. E lo fa attraverso gesti che sembrano insignificanti: un piccolo sasso scolpito, un vinile delle “Nozze di Figaro” di Wolfgang Amadeus Mozart fatto suonare ad alto volume per tutti i carcerati, una biblioteca costruita con pazienza e determinazione. Sono questi gesti che, alla fine, si rivelano rivoluzionari.

La forza del film sta anche nella sua capacità di non cedere mai alla retorica. Anche nei momenti più toccanti, Darabont – autore pure della sceneggiatura – mantiene un equilibrio narrativo che impedisce al racconto di scivolare nel patetico. Questo equilibrio è amplificato dalla splendida fotografia di Roger Deakins, che sa essere tanto claustrofobica quanto ariosa, con i suoi giochi di luce e ombra che sembrano commentare la condizione esistenziale dei personaggi.

E poi c’è il finale. Non lo svelo per chi non avesse ancora visto il film, ma posso dire che è uno di quei finali che ti lasciano con un nodo alla gola e un senso di catarsi. Non perché sia sorprendente o pieno di colpi di scena, ma perché è onesto, autentico. Un finale che rende giustizia a tutto ciò che è venuto prima, e che ci ricorda che la speranza, quella vera, non è mai ingenua o facile, ma nasce dalla sofferenza e dalla resistenza.

Le ali della libertà” non è un film perfetto, ma è un film necessario. Un’opera che parla della capacità dell’animo umano di resistere, di trovare luce anche nell’oscurità più profonda, e di spiccare il volo quando tutto sembra perduto. In un mondo in cui spesso siamo prigionieri di noi stessi e delle nostre paure, questo film ci ricorda che la libertà, quella vera, inizia e finisce nella nostra mente.

Quindi, se non lo avete ancora fatto, prendetevi due ore e mezza, e lasciatevi trasportare a Shawshank. Potreste scoprire che, in fondo, le ali della libertà sono già dentro di voi.

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