“La signora di Shangai” di Orson Welles

(USA, 1947)

Orson Welles decide di portare sul grande schermo il romanzo noir “Se muoio prima di svegliarmi” pubblicato da Sherwood King per la prima volta nel 1938.

Welles sceglie di dirigere sua moglie Rita Hayworth, fresca del successo planetario del film “Gilda”, in cui incarna una delle figure più sensuali della storia del cinema con la sua fluente chioma rossa. Non è un caso, quindi, che molti decenni dopo le forme e i colori di Jessica Rabbit dello strepitoso “Chi ha incastrato Roger Rabbit?” di Robert Zemeckis, siano proprio le sue.

Ma Welles ha una visione tutta sua della protagonista del film e così, senza avvisare la produzione, fa tagliare e tingere di biondo platino i capelli della Hayworth. Il film venne terminato nel 1946, ma approdò nelle sale solo due anni dopo – quado Welles e Hayworth avevano già divorziato – perché Harry Cohn, responsabile della Columbia Pictures, non riusciva a tollerare il drastico cambiamento d’aspetto della sua star più famosa del momento. Tornando alla pellicola, forse anche per questo, venne accolta assai tiepidamente dal pubblico che non gradì la Hayworth nei panni di una delle dark lady più oscure del cinema.

Passeggiando per Central Park il giovane marinaio irlandese Michael O’Hara (Orson Welles) incappa casualmente nell’affascinante Elsa Bannister (Rita Hayworth, che con i capelli corti e biondi mantiene integro tutto il suo fascino) e quando questa viene assalita da tre malintenzionati, la salva grazie all’uso ruvido delle sue mani.

La donna ne rimane affascinata e gli propone di lavorare per lei, ma Michael rifiuta. Il giorno dopo, al porto, mentre O’Hara è in attesa di un nuovo imbarco gli si presenta davanti il famoso e ricco avvocato Arthur Bannister (Everett Sloane) che, mandato da sua moglie, lo ingaggia sul suo yacht privato per una crociera sulla coste del Messico.

L’attrazione fra Michael ed Elsa è palpabile e visibile da tutti, ma l’avvocato Bannister sembra non curarsene, anche se…

Indimenticabile noir d’antologia con un potenza narrativa e, soprattutto, visiva davvero incredibile. Il film fu molto criticato alla sua uscita, ma a distanza di tanti anni invece risulta essere uno dei migliori del suo genere in assoluto, con sequenze che ancora oggi vengono imitate e citate. La scena finale del delizioso “Misterioso Omicidio a Manhattan” di Woody Allen è solo uno dei numerosi esempi.

Quando Orson Welles morì nel 1985, già da molto tempo non riusciva più a trovare chi fosse disposto a produrre i suoi film. Ma il tempo è il miglior giudice e così oggi, giustamente, questo film come tutti gli altri firmati da lui sono stati rivalutati e apprezzati come avrebbero dovuto essere fin da subito.

Fra i pochi che lo apprezzarono in vita ci furono – e certo questo non è un caso perché si dice giustamente che ci voglia un genio per riconoscere un altro genio – il maestro Pier Paolo Pasolini che lo volle nel suo “La ricotta”, splendido episodio del film “Ro.Go.Pa.G.” del 1963, proprio nel ruolo del regista del film in cui Stracci (Mario Ciprani) – la comparsa personaggio principale del cortometraggio – lavora.

Il compenso richiesto da Welles fu esorbitante, e la produzione minacciò di annullare l’episodio, ma Pasolini fu irremovibile pur di dirigerlo. Un altro grande autore che apprezzava Welles è stato il grande Rod Serling che tentò di averlo come presentatore nella sua mitica serie “Ai confini della realtà“, ma la CBS reputò inaccettabile il budget richiesto dallo stesso Welles.

“La signora di Shangai” è indubbiamente uno dei migliori noir – e non solo – della storia del cinema che deve essere visto da chi ama il cinema.

“Tavole separate” di Delbert Mann

(USA, 1958)

L’inglese Terence Rattigan (1911-1977) nel 1954 firma la commedia teatrale intimista “Separate Tables” che riscuote subito un ottimo successo, anche nei teatri d’oltreoceano. Hollywood se ne interessa, visto poi il forte legame fra Rattigan e il cinema che lo ha portato a firmare già varie sceneggiature e non solo di adattamenti di sue opere teatrali.

Assieme a John Gray e John Michael Hayes (autore di vari script di film poi diretti del maestro Alfred Hitchcock) Rattigan scrive la sceneggiatura che viene diretta da un grande artigiano della macchina da presa come Delbert Mann.

Il “Beauregard” è una piccola pensione a conduzione familiare situata nella località marittima di Bournemouth, nel sud della Gran Bretagna, che si affaccia sul canale della Manica. La pubblicità, che fa regolarmente sui giornali, sottolinea soprattutto la possibilità di desinare in tavole separate, peculiarità solo di un ambiente serio e riservato.

La titolare e inappuntabile direttrice è Pat Cooper (una bravissima Wendy Hiller, che per questa interpretazione vince l’Oscar come miglior attrice non protagonista) che conosce molto bene tutti i suoi ospiti, molti dei quali vivono lì ormai in maniera stabile.

Come ogni microcosmo, anche il “Beauregard” contiene quasi tutti gli strati sociali, a partire dalle aristocratiche Lady Gladys Matheson (Cathleen Nesbitt), Maud Railton-Bell (Gladys Cooper, che presterà il suo volto e la sua arte in pellicole come “I cinque volti dell’assassino” e “My Fair Lady” oltre che in tre episodi della mitica serie “Ai confini della realtà” di Rod Serling) e sua figlia Sibyl (una bravissima Deborah Kerr).

Poi c’è l’attempato ex maggiore Angus Pollock (David Niven) e i due studenti in vacanza Charles (un giovane Rod Taylor) e Jean (Audrey Dalton). Caso a parte è John Malcom (un gagliardo come sempre Burt Lancaster) giornalista e scrittore americano che ormai da quasi cinque anni vive nel piccolo albergo lontano dalla sua New York.

Fra la titolare della pensione e il giornalista americano è nato del tenero e proprio quando finalmente i due sembrano decisi a ufficializzarlo, arriva nell’albergo Ann Shankland (Rita Hayworth), ex modella e, soprattutto, ex moglie di Malcom.

Ma la calma apparente dell’albergo viene minata anche da altri ospiti, e soprattutto dai loro più inconfessabili segreti…         

Mann dirige una pellicola che tratteggia sapientemente, senza sconti per nessuno ma al tempo stesso con un accento finale d’ottimismo, la commedia umana, dove le cose più oscure e velenose sono le ipocrisie e il perbenismo e non certo le debolezze o le fragilità.

Un inno alla tolleranza girato tutto in studio, anche nei brevi e fugaci esterni, e fotografato in uno splendido bianco e nero che gli regala un’atmosfera surreale e indimenticabile.

Se il testo di Rattigan ancora oggi appare assai attuale, questo film lo rende ancora più efficace grazie anche ad un cast davvero stellare dove spiccano, oltre alla Hiller e a Lancaster, David Niven e Deborah Kerr che ci regalano due interpretazioni indimenticabili. I due, non a caso, furono candidati all’Oscar, ma solo Niven conquistò la statuetta.