La Foglia d’Acanto: un podcast per chi ama libri, film e serie tv senza spoiler!

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“La Foglia d’Acanto”, è il podcast che nasce dall’amore – o forse sarebbe meglio dire, dall’ossessione… – per le storie. Che siano scritte su carta, proiettate su un grande schermo o diluite in più puntate da divorare sul divano, io le vivo sempre con un occhio attento e, non lo nascondiamo, anche con un pizzico di ironia.

Dopo aver trascorso anni a scrivere recensioni per questo blog, ho deciso di portare questa passione anche in formato audio, per permettervi di ascoltare le mie riflessioni mentre andate al lavoro, preparate la cena o semplicemente cercate un po’ di compagnia durante le giornate frenetiche. In ogni episodio parlerò di libri che meritano di essere letti (e, a volte, ma molto più raramente di quelli che avrei dovuto evitare), di film che lasciano un segno (e di quelli che sarebbe meglio non vedere mai) e di serie tv che creano dipendenza (o che, talvolta, ci fanno pentire di aver acceso il televisore).

Il titolo, La Foglia d’Acanto, richiama una pianta che da sempre simboleggia l’arte e la creatività, ma è anche una metafora di quelle storie che nascono da una semplice idea, per poi crescere e avvolgerci come una pianta, anche quando meno ce lo aspettiamo. In questo podcast, però, ci sarà sempre spazio per l’ironia, perché sono convinto che il modo migliore per parlare di cultura sia farlo sempre con passione, ma anche con leggerezza.

Quindi, se siete alla ricerca di consigli, di spunti o semplicemente di un po’ di sano intrattenimento, La Foglia d’Acanto è il posto giusto. Sedetevi, rilassatevi e lasciatevi trasportare da recensioni, riflessioni e qualche battuta qua e là. Prometto che non vi annoierete.

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Buon ascolto,
Valerio

“Sperandina”

In primo piano

Per Sperandina Rimedi la speranza è solo una parte del nome perché la vita si presenta presto priva di aspettative e con ben pochi sogni da realizzare.

A cavallo tra due secoli le drammatiche vicende del nostro Paese, dalla seconda guerra mondiale al terrorismo, sino alla pandemia, scandiscono il trascorrere di una vita, nel cui inesorabile dipanarsi per nove decenni, emerge la dolorosa consapevolezza di un prezioso ”durante”.

Sperandina, soprattutto, ci mostra le difficoltà di crescere donna in una società patriarcale, con un padre maschilista e tanti, troppi, pregiudizi da superare, ma l’indipendenza conquistata a fatica le consente di godere comunque del bello della vita, di sognare attraverso il cinema, il teatro, la musica e di toccare anche l’amore.

Sperandina, che dopo aver lasciato Roma, rassegnata e disillusa, decide di vivere definitivamente a Perugia, la speranza non la perde mai davvero. Così la speranza per Sperandina brilla anche nelle sue ultime brevi e sospirate parole, che guardano al futuro con fiducia e amore.

Parabola umana di una straordinaria figura femminile, delineata con estrema sensibilità e delicatezza in un quadro sociologico, storico e familiare destinato a suscitare profonde emozioni.

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“La voce della tortora” di Irving Rapper

(USA, 1948)

Tratto dall’omonima commedia teatrale di John Van Druten (i cui diritti la produzione, visto il successo a Broadway, pagò ben 500.000 dollari) “La voce della tortora”, diretto da Irving Rapper, è una leggera e piacevole commedia romantica che si inserisce perfettamente nella Hollywood del dopoguerra. Con protagonisti Eleanor Parker e Ronald Reagan, il film riesce a intrattenere e divertire, ma è Eve Arden a rubare la scena con una performance brillante e irresistibile.

New York, 1945, la guerra in Europa, come l’inverno, sembra non finire più. Sally Middleton (Eleanor Parker), un’attrice di New York delusa dall’amore, accetta di ospitare per un weekend il sergente Bill Page (Ronald Reagan), rimasto senza appuntamento dopo essere stato scaricato all’ultimo minuto da Olive, amica e collega di palcoscenico della stessa Sally. Tra incomprensioni, battute romantiche e momenti di tenerezza, il legame tra i due protagonisti cresce lentamente, ma ciò che realmente dà al film la sua energia è la presenza di Eve Arden nei panni di Olive Lashbrooke, l’amica sarcastica e cinica della protagonista.

Arden, con il suo inimitabile tempismo comico, riesce a far risaltare ogni battuta che le viene affidata. Il suo personaggio è la perfetta incarnazione della sagacia disincantata: ogni suo commento è una freccia lanciata con precisione contro le ingenuità romantiche di Sally e le goffaggini di Bill. È lei, con il suo cinismo e la sua ironia, a bilanciare i toni dolci e sentimentali del film, evitando che scivoli nel melenso. In un’epoca in cui le spalle comiche femminili erano spesso relegate a ruoli minori, Eve Arden dimostra tutto il suo talento, trasformando Olive in un personaggio che resta impresso nella memoria dello spettatore.

La sua interpretazione è brillante, leggera ma al tempo stesso incisiva, e rende evidente come il talento di Arden sia stato spesso sottovalutato. Mentre Eleanor Parker e Ronald Reagan portano avanti la trama principale con grazia e dolcezza, è la saggezza cinica e divertente di Arden a dare alla pellicola un sapore unico, facendoci sorridere e ridere di cuore.

Irving Rapper (che all’inizio aveva cercato di scritturare Cary Grant per la parte di Bill e che era restio alla scelta di Reagan che reputava un attore mediocre), regista dallo stile sobrio e funzionale, lascia giustamente spazio ai suoi attori, permettendo loro di brillare nei rispettivi ruoli. Ma se Parker e Reagan seguono un percorso prevedibile e ben battuto nella commedia romantica classica, Arden si muove su un altro livello, con un’energia e un’intelligenza che elevano ogni scena in cui compare. Le generazioni successive, come la mia, possono apprezzare la Arden anche in pellicole più recenti, come l’intramontabile “Grease”, in cui l’attrice interpreta la professoressa McGee, la preside della Rydell High School.

In conclusione, “La voce della tortora” è una commedia piacevole, che scorre via in maniera leggera, senza troppe pretese. Ma se c’è un motivo per cui vale davvero la pena guardarlo, questo è senza dubbio la straordinaria interpretazione di Eve Arden – attrice molto amata da Woody Allen che considera questa pellicola una delle sue preferita del tempo – che con il suo sarcasmo arguto e la sua presenza scenica magnetica riesce a trasformare un film altrimenti ordinario in una piccola gemma di intrattenimento.

Nella nostra versione, fatta quando la pellicola uscì nella nostre sale, da ricordare l’immortale Rina Morelli che dona la voce a Eleanor Parker e Clelia Bernacchi a Eve Arden.

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“Happiness” di Todd Solondz

(USA, 1998)

Todd Solondz non è certo un regista che gira intorno alle cose. Anzi, le affronta di petto e lo fa sempre senza paura di sporcarsi le mani, anzi, le sprofonda direttamente nel fango dell’animo umano. “Happiness”, il suo terzo lungometraggio, non fa eccezione, ed è forse il film che più di tutti ha segnato la sua carriera. Un’opera che ha fatto discutere e continua a dividere, grazie (o a causa) della sua capacità di portare sullo schermo le parti più nascoste e inquietanti della società americana, e non solo.

La storia ruota attorno alla famiglia Jordan, il cui patriarca è Lenny (interpretato fa Ben Gazzara) sposato da molti decenni con Mona (Louise Lasser). Le loro tre figlie Trish, Helen e Joy sono l’emblema di un’apparente normalità che nasconde profondi abissi emotivi e segreti inconfessabili. La bella e ricca Helen (Lara Flynn Boyle), scrittrice di successo, è intrappolata in una vita in cui tutto le sembra troppo facile e banale. Sua sorella minore Joy (Jane Adams), invece, è l’eterna perdente, una donna fragile e insicura alla ricerca di un posto nel mondo, che sembra sfuggirle ogni volta che pensa di averlo trovato.

Ma se i drammi di queste due sorelle già mettono in evidenza le contraddizioni della vita borghese, è con i personaggi maschili che Solondz spinge davvero sull’acceleratore. Allen (un grande Philip Seymour Hoffman) è un uomo solitario e socialmente inetto, ossessionato da fantasie sessuali che lo rendono incapace di qualsiasi forma di interazione normale con l’altro sesso. L’altro volto oscuro è Bill (Dylan Baker), marito di Trish (Cynthia Stevenson) padre di famiglia e stimato psichiatra, che nasconde terribili pulsioni dietro la sua facciata rispettabile.

Ciò che colpisce di “Happiness” è come Solondz riesca a trattare temi tabù – la pedofilia, la perversione sessuale, la solitudine e l’alienazione – senza mai cedere alla provocazione fine a se stessa o alla morbosità gratuita. Ogni personaggio, per quanto moralmente discutibile o repellente, è tratteggiato con una tale umanità che diventa difficile giudicarlo con superficialità. Anzi, il regista ci obbliga a guardarli da vicino, costringendoci a confrontarci con le nostre stesse ipocrisie e debolezze.

Il cast è straordinario: Lara Flynn Boyle è perfetta nel ruolo della glaciale Helen, mentre Philip Seymour Hoffman regala una delle sue interpretazioni più intense e scomode, così come sono taglienti i dialoghi fra Lenny e Mona che si ritrovano sull’orlo del divorzio. Ma è Dylan Baker a sorprendere: il suo Bill è un personaggio che lascia un segno indelebile, grazie alla sua capacità di incarnare il male più subdolo sotto le sembianze della normalità quotidiana.

Nonostante la durezza dei temi trattati, Solondz mantiene uno stile narrativo asciutto e freddo, alternando momenti di crudo realismo a sprazzi di humor nero, talmente sottile da risultare quasi impercettibile. È proprio questa miscela a rendere “Happiness” un film così disturbante: lo spettatore si ritrova a ridere di situazioni tragiche o a sentirsi a disagio di fronte a scene che normalmente dovrebbe rifiutare senza esitazione.

Non è un film per tutti. Solondz non fa sconti, non offre redenzione o vie d’uscita. Chi guarda “Happiness” deve essere disposto a confrontarsi con una visione del mondo che mette a nudo le peggiori fragilità umane. Ma per chi è disposto a intraprendere questo viaggio scomodo, il film regala una riflessione profonda e sconvolgente sulla natura della felicità e sul prezzo che siamo disposti a pagare per ottenerla.

Un’opera d’arte nel vero senso del termine, che non lascia indifferenti e che, a più di vent’anni dalla sua uscita, continua a essere un punto di riferimento per il cinema indipendente e per tutti coloro che cercano qualcosa di più di una semplice evasione dalla realtà. Da ricordare anche la colonna sonora, curata da Robby Kondor, che volutamente commenta le scene con musica opposta agli eventi e alle emozioni che provano i personaggi.

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“Una relazione privata” di Frédéric Fonteyne

(Francia/Svizzera/Belgio/Lussemburgo, 1999)

Se una volta tanto i distributori italiani ci hanno azzeccato con il titolo del film, qualcosa vorrà pur dire.

Il regista belga Frédéric Fonteyne, infatti, con questa pellicola del 1999 – il cui titolo originale è “Une liaison pornographique”, dove il pornografico è intenso come qualcosa di intimo che viene reso pubblico – ci racconta la storia fra un uomo e una donna, entrambi senza nome, che si incontrano per dare vita a una relazione puramente fisica, senza coinvolgimenti emotivi né complicazioni sentimentali. Almeno nelle loro intenzioni.

Interpretati magistralmente da Nathalie Baye (attrice di vari film del maestro François Truffaut come “Effetto notte”, “L’uomo che amava le donne” e “La camera verde”) e Sergi López (che poi vestirà i panni del crudele e sanguinario capitano Vidal nello struggente “Il labirinto del fauno” di Guillermo Del Toro) i due protagonisti si sono conosciuti tramite un annuncio e hanno stabilito delle regole ferree per il loro rapporto: nessun contatto al di fuori delle loro “sessioni” e nessuna curiosità sulle rispettive vite private. Ma, come sappiamo, mettere delle barriere ai sentimenti, quelli veri, è spesso un’impresa vana e fuori da ogni possibilità umana.

La storia è raccontata in modo singolare: il film alterna le scene del loro rapporto clandestino a interviste postume dei due protagonisti, che rivelano il loro punto di vista sugli eventi, dopo che la relazione è ormai giunta al termine. Questo espediente non solo aggiunge una dimensione riflessiva alla narrazione, ma ci permette anche di conoscere a fondo i pensieri più intimi dei due, che forse non avrebbero mai osato confessare l’una all’altro.

Fonteyne riesce, con una regia asciutta e mai invadente, a costruire un racconto dove il non detto ha lo stesso peso delle parole pronunciate. Le scene di intimità, sebbene presenti, non scivolano mai nel voyeurismo o nella volgarità, e sono sempre al servizio della trama e dello sviluppo psicologico dei personaggi. La camera si sofferma sui loro volti, sui gesti e sui silenzi, restituendo allo spettatore un senso di autenticità e fragilità che rende la loro storia tanto comune quanto unica.

Il film ci interroga su quanto sia possibile tenere separati i sentimenti dal desiderio fisico. I protagonisti, pur cercando di vivere una relazione priva di complicazioni emotive, scoprono che il coinvolgimento personale è inevitabile, e che il contatto fisico è spesso l’anticamera di qualcosa di più profondo e difficile da gestire.

Nathalie Baye, con la sua interpretazione misurata ma intensa, dona al suo personaggio una complessità che si svela piano piano, mentre Sergi López riesce a trasmettere con straordinaria naturalezza il conflitto interiore del suo protagonista. Entrambi si ritrovano coinvolti in una rete di sentimenti dalla quale non sanno – …e forse non vogliono – più fuggire.

“Una relazione privata”, scritto da Philippe Blasband, è un piccolo gioiello del cinema europeo, che con pochi elementi e tanta sensibilità ci racconta una storia che tocca corde profonde. Non cerca mai di sorprendere con colpi di scena o trovate narrative, ma ci avvolge lentamente in un’atmosfera intima e malinconica, dove le parole non dette pesano più di quelle pronunciate.

Un film da vedere per chi ama le storie d’amore non convenzionali e il cinema che sa indagare con discrezione nell’animo umano.

“Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton

(USA, 2011)

Ci sono film che riescono a toccare corde profonde con una delicatezza disarmante, e “Your Sister’s Sister” di Lynn Shelton (1965-2020) è uno di questi. Questo gioiellino indipendente, infatti, dimostra come la semplicità possa essere il veicolo ideale per esplorare le complessità delle relazioni umane, attraverso una narrazione intima e autentica.

La storia ruota attorno a Jack (Mark Duplass), un uomo ancora devastato dalla recente morte del fratello. La sua migliore amica, Iris (Emily Blunt), lo convince a prendersi una pausa dalla vita quotidiana, invitandolo a trascorrere qualche giorno di isolamento nella casa di famiglia su un’isola del Pacifico nord-occidentale. Quello che dovrebbe essere un rifugio tranquillo si trasforma in qualcosa di molto diverso quando Jack scopre che la casa è già occupata dalla sorella di Iris, Hannah (Rosemarie DeWitt), che si sta riprendendo dalla fine di una lunga relazione.

L’incontro tra Jack e Hannah dà il via a una serie di eventi imprevedibili che coinvolgono segreti, rivelazioni e dinamiche familiari complesse. Il film si snoda tra momenti di intenso dramma e situazioni di sottile umorismo, mantenendo sempre una tonalità sincera e profondamente umana. Shelton, che ha anche scritto la sceneggiatura, riesce a creare personaggi incredibilmente realistici, con dialoghi che sembrano emergere spontaneamente, come conversazioni reali tra persone che conosciamo da sempre.

Uno degli aspetti più affascinanti di “Your Sister’s Sister” è la sua capacità di esplorare le sfumature dell’intimità e del legame fraterno. La relazione tra Iris e Hannah è centrale al film, e l’alchimia tra Emily Blunt e Rosemarie DeWitt è palpabile, rendendo credibile ogni interazione. La loro dinamica è complicata, a tratti conflittuale, ma sempre intrisa di un profondo affetto, che risuona con una verità universale.

Mark Duplass, con la sua interpretazione naturale e non forzata, incarna perfettamente l’antieroe moderno: imperfetto, vulnerabile e, in fin dei conti, straordinariamente umano. Jack è un personaggio con cui è facile identificarsi, qualcuno che lotta con il dolore e la confusione, ma che trova anche momenti di leggerezza e conforto nelle connessioni che stabilisce.

La regia di Shelton è discreta, quasi invisibile, lasciando che siano i personaggi e la storia a guidare l’esperienza dello spettatore. Il film è stato girato con un budget modesto e con un approccio quasi documentaristico, il che contribuisce a creare un’atmosfera intima e immediata. I paesaggi dell’isola, fotografati con una luce naturale, aggiungono un ulteriore strato di bellezza e isolamento, rispecchiando lo stato d’animo dei personaggi.

“Your Sister’s Sister” è un film che non ha bisogno di grandi colpi di scena o di effetti speciali per catturare l’attenzione. È una storia semplice ma profondamente risonante, che parla di dolore, amore, e del complicato groviglio di emozioni che spesso accompagna le nostre relazioni più strette. È un’opera che lascia spazio alla riflessione e che invita lo spettatore a confrontarsi con le proprie esperienze e i propri sentimenti.

In un’epoca in cui il cinema sembra spesso puntare su spettacoli grandiosi e trame complesse, “Your Sister’s Sister” ci ricorda che la forza di un film può risiedere nella sua semplicità e nella sua capacità di raccontare storie che toccano il cuore. Lynn Shelton, con la sua sensibilità unica, ha creato una pellicola che rimane impressa nella memoria, offrendo un’esperienza cinematografica tanto intima quanto universale. Una volta, anche la nostra cinematografia, era capace di sfornare pietre preziose a basso costo come questa.

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“Harper” di Jack Smight

(USA, 1966)

Il 1966 ha regalato agli amanti del cinema noir un piccolo gioiello intitolato Harper, un film diretto con mano sapiente da Jack Smight e reso indimenticabile dalla straordinaria interpretazione di Paul Newman. In un’epoca in cui il cinema era popolato da eroi monolitici e investigatori dai metodi ortodossi, Harper emerge come un’opera che sfida le convenzioni del genere, portando sul grande schermo un detective dai tratti cinici, disillusi, ma anche incredibilmente affascinanti.

Il film è un adattamento del romanzo “The Moving Target” di Ross Macdonald, e vede Newman vestire i panni di Lew Harper, un investigatore privato che sembra uscito direttamente dalle pagine di Chandler o Hammett, ma con quel tocco di modernità che solo Newman poteva dare. Harper è un personaggio complesso, un uomo la cui vita personale è in rovina, ma che riesce a trovare un equilibrio instabile attraverso il suo lavoro, fatto di casi intricati e relazioni ambigue.

La trama segue Harper mentre indaga sulla scomparsa di un ricco magnate, un caso che lo porterà a confrontarsi con una Los Angeles decadente, piena di personaggi ambigui e situazioni al limite del legale. È qui che il talento di Smight emerge con prepotenza, riuscendo a creare un’atmosfera densa e opprimente, in cui ogni scena è intrisa di una tensione sottile ma persistente. La regia di Smight, pur non avendo il tocco autoriale dei più grandi, è funzionale e incisiva, capace di tenere lo spettatore costantemente sul filo del rasoio.

Ma il vero cuore pulsante di Harper è Paul Newman. Con la sua interpretazione, l’attore riesce a rendere il personaggio di Lew Harper non solo credibile, ma anche profondamente umano. Newman gioca con le sfumature, passando con naturalezza dal sarcasmo al dolore, dalla determinazione alla vulnerabilità. È una performance che cattura l’essenza stessa del detective noir: un uomo che non si ferma davanti a nulla, ma che è anche consapevole delle proprie fragilità.

Il cast di supporto non è da meno, con una brillante Lauren Bacall nel ruolo della moglie del magnate scomparso e un’ottima Janet Leigh che interpreta la moglie di Harper, una presenza costante che ci ricorda il lato più oscuro e malinconico della vita del protagonista.

Harper non è solo un film noir, ma anche un ritratto di un’epoca e di una città. La Los Angeles degli anni ’60 è rappresentata come una metropoli in cui il sogno americano sembra essersi infranto, lasciando spazio solo a illusioni e corruzione. Smight, attraverso la lente di Harper, ci mostra un mondo in cui il confine tra giusto e sbagliato è sempre più sfumato, e in cui i personaggi sono costretti a navigare in acque torbide, alla ricerca di una verità che, forse, non esiste.

In conclusione, Harper è un film che merita di essere riscoperto, non solo per la straordinaria interpretazione di Paul Newman, ma anche per la sua capacità di catturare lo spirito di un genere e di un’epoca. È un’opera che, nonostante i suoi quasi sessant’anni, riesce ancora a coinvolgere e a far riflettere, dimostrando come il noir, quando fatto con intelligenza e passione, possa ancora parlare al cuore e alla mente dello spettatore moderno.

Nel 1975 Stuart Rosenberg dirige il sequel “Detective Harper: acqua alla gola”, sempre tratto da un romanzo di Macdonald e sempre con un grande Paul Newman nei panni del protagonista.

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“Miss Violence” di Alexandros Avranas

(Grecia, 2013)

Alcuni film riescono a sconvolgere lo spettatore non tanto per ciò che mostrano esplicitamente, ma per il mondo oscuro che lasciano intravedere dietro le apparenze. “Miss Violence”, diretto da Alexandros Avranas e presentato alla 70ª Mostra del Cinema di Venezia, rientra a pieno titolo in questa categoria.

La pellicola si apre con una scena che toglie immediatamente il fiato: Angeliki, una ragazzina di undici anni, durante la sua festa di compleanno si getta dalla finestra di casa, con un sorriso ambiguo che segna l’inizio di una discesa negli abissi dell’animo umano. Da quel momento, Avranas costruisce un thriller psicologico cupo e soffocante, dove l’apparente normalità nasconde una realtà di abusi e violenze indicibili.

La forza del film sta nel suo impianto visivo e narrativo: Avranas sceglie di mantenere un approccio stilistico glaciale, quasi clinico. La casa dove si svolge gran parte della vicenda è immacolata, ordinata in maniera ossessiva, specchio di una famiglia che sembra, agli occhi del mondo, perfettamente in controllo. Ma proprio in questo controllo si annida il male, come il regista greco ci svela gradualmente con una regia fatta di inquadrature statiche e silenzi assordanti. Ogni sguardo, ogni gesto quotidiano è impregnato di tensione.

Il cast, guidato da un magistrale Themis Panou (che non a caso vince la Coppa Volpi per la sua interpretazione), è perfetto nel rendere l’atmosfera malsana e opprimente che pervade il film. Panou interpreta il patriarca con un’aura di calma autorità che nasconde una violenza subdola e totalizzante. I membri della famiglia sembrano pedine in un gioco malato, costretti a obbedire a regole non dette, ma ferree.

“Miss Violence” non fa sconti e non lascia spazio a vie di fuga, né per i personaggi né per chi guarda. La violenza non è mai spettacolarizzata, ma permea ogni scena in modo quasi invisibile, insinuandosi sotto la pelle dello spettatore, fino a rivelare una realtà agghiacciante e dolorosamente plausibile.

La critica alla società greca è evidente, ma Avranas – che vince anche il Leone d’Argento per la sua regia – riesce a creare un racconto universale: in qualsiasi contesto culturale, dietro l’apparente perfezione di certe famiglie possono celarsi dinamiche di controllo e sottomissione che difficilmente riusciamo a immaginare.

Non è un film facile da affrontare, né da dimenticare. La sua narrazione asciutta, priva di facili spiegazioni, lascia aperte domande che continuano a tormentare a lungo: fino a che punto possiamo davvero conoscere chi ci sta accanto? E quanto possiamo ignorare prima di ammettere che il male, a volte, è proprio dove meno ce lo aspettiamo?

“Corte d’Assise” di Georges Simenon

(Adelphi, 2010)

Ci sono scrittori capaci di raccontare l’animo umano con una semplicità disarmante, e poi c’è Georges Simenon, che fa sembrare questa capacità quasi un gioco da ragazzi. Pubblicato per la prima volta nel 1941 – ma scritto nel 1937 e rifiutato molte volte perché tacciato di “assoluta immoralità” – “Corte d’assise” è uno di quei romanzi in cui l’autore, senza i soliti riflettori puntati su Maigret, si addentra nei territori più oscuri dell’animo umano, con una precisione chirurgica e un tocco di poesia che lascia il segno.

Il protagonista di questa tragedia umana è Louis Bert, detto Petit Louis, un uomo che sembra già condannato fin dal primo capitolo. Accusato dell’omicidio della sua amante Jeanne Ropiquet, Louis si ritrova in un’aula di tribunale, dove si gioca non solo il suo futuro, ma anche la comprensione di ciò che lo ha portato fin lì. Simenon ci guida attraverso il processo con una narrazione che va avanti e indietro nel tempo, mostrandoci la vita del protagonista come un film a pezzi, fatto di miseria, disperazione e scelte sbagliate.

Louis non è un mostro, non è un criminale spietato; è un uomo fragile, spezzato dalle circostanze, incapace di fuggire da una vita che sembra decisa per lui sin dalla nascita. È proprio in questo tratteggio psicologico che Simenon dà il meglio di sé. L’autore non ci offre la storia di un assassino da condannare o da assolvere, ma di un essere umano che cade, quasi inevitabilmente, nel vortice degli eventi.

Se vi aspettate una riflessione su giustizia e morale, siete nel posto giusto, ma sappiate che Simenon non è uno scrittore da soluzioni facili. In “Corte d’assise“, la giustizia non è mai bianca o nera e così, come nell'”Antigone” di Sofocle, la Legge si scontra inevitabilmente con la Morale. L’aula di tribunale diventa il teatro di una rappresentazione in cui le parti in causa — giuria, pubblico, giudici — non sono altro che attori in un gioco prestabilito. E noi lettori ci ritroviamo a osservare, con lo stesso senso di impotenza di Louis, il suo destino scivolare via.

Simenon non ci dice mai apertamente se Louis è colpevole o innocente, perché la colpa non è una questione di leggi scritte, ma di umanità. Le vite dei personaggi di Simenon non si possono spiegare con formule giuridiche: sono troppo complesse, troppo imperfette.

Come al solito, Simenon colpisce con la sua prosa asciutta e precisa. Ogni parola sembra scelta con cura maniacale, ogni dialogo affilato come una lama. Non c’è spazio per fronzoli o descrizioni inutili, perché ciò che conta è la tensione che cresce pagina dopo pagina, fino al climax inevitabile. E quella tensione è costante, palpabile, senza mai risultare forzata o esagerata.

L’atmosfera del romanzo è cupa e opprimente, tanto che sembra di sentire l’odore della polvere nell’aula di tribunale, di percepire il rumore dei passi degli avvocati, il fruscio dei documenti maneggiati dalla giuria. Non è solo un romanzo, è un’esperienza che ti avvolge e ti lascia un senso di disagio profondo, proprio come un buon Simenon dovrebbe fare.

Corte d’assise” non è tra i titoli più noti del prolifico autore belga, ma è uno di quei romanzi che una volta finiti ti rimangono attaccati addosso. Simenon ha il dono di farti riflettere sul destino e sulla fragilità della condizione umana, senza mai risultare moralista o didascalico. Se vi piacciono i romanzi che scavano nell’animo umano, che non hanno paura di mostrarvi le debolezze dei personaggi, allora questo libro è una tappa obbligata. Perché in fondo, come ci insegna Simenon, siamo tutti un po’ come Petit Louis: schiavi delle nostre scelte e vittime di un mondo che non ci capisce davvero.

E se vi aspettate un lieto fine, beh, state leggendo l’autore sbagliato.

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“La ragazza del quartiere” di Robert Wise

(USA, 1962)

C’è una magia particolare nel cinema di Robert Wise, un equilibrio tra la profondità delle storie che racconta e la maestria con cui le mette in scena. “La ragazza del quartiere” – il cui titolo originale è “Two for the Seesaw”, dove Seesaw identifica l’altalena dei sentimenti di un rapporto irrisolto – con Robert Mitchum e Shirley MacLaine, è un esempio perfetto di questo suo talento.

Tratto dall’omonima opera teatrale di William Gibson (1914-2008) – che andò in scena per la prima volta nel gennaio del 1958 e vide l’esordio sul palcoscenico della giovane Anne Bancroft nei panni di Gittel, ruolo per il quale l’attrice vinse il suo primo Emmy, affiancata da Henry Fonda in quelli di Jerry – il film trasporta sullo schermo la complessità emotiva di una storia d’amore intensa e tormentata, resa indimenticabile dalle interpretazioni dei due protagonisti.

La trama segue l’incontro tra Jerry Ryan (Robert Mitchum), un avvocato divorziato, e Gittel Mosca (Shirley MacLaine), una ballerina di New York che lotta per sbarcare il lunario. Jerry, appena arrivato in città dopo aver lasciato Omaha, il Nebraska e un matrimonio fallito, si trova a navigare le acque turbolente di una nuova vita. Gittel, invece, è una giovane donna vivace ma fragile, il cui passato doloroso non smette di condizionarle il presente. L’incontro tra queste due anime ferite dà vita a una relazione tanto passionale quanto instabile, fatta di alti e bassi, di momenti di dolcezza e scontri dolorosi.

La scelta di Robert Mitchum come protagonista maschile potrebbe sembrare insolita, dato il suo passato cinematografico fatto di ruoli duri e impassibili, come nelle pietre miliari “Il tesoro di Vera Cruz”, “Le catene della colpa”, “La morte corre sul fiume” e “Odio implacabile”. Eppure, in “La ragazza del quartiere”, Mitchum dimostra una sorprendente vulnerabilità. Il suo Jerry è un uomo spezzato, alla ricerca di un senso di appartenenza che sembra sfuggirgli continuamente. Shirley MacLaine, invece, con la sua energia contagiosa e il suo sguardo malinconico, riesce a incarnare perfettamente il personaggio di Gittel, una donna che lotta per non soccombere alla solitudine e all’amarezza.

La splendida fotografia in bianco e nero di Ted McCord è un altro elemento che merita una menzione speciale. Il film sfrutta al meglio le ombre e i contrasti, creando un’atmosfera che amplifica la tensione emotiva tra i due protagonisti. New York, con i suoi appartamenti angusti e le sue strade affollate, diventa quasi un personaggio a sé stante, un luogo che rispecchia le emozioni turbolente di Jerry e Gittel.

Ma è la regia di Wise a fare davvero la differenza. Il regista sa quando lasciar respirare le scene, permettendo ai suoi attori di esplorare a fondo i loro personaggi, e quando invece intensificare il ritmo per sottolineare i momenti di conflitto. Il risultato è un film che, pur mantenendo le sue radici teatrali, riesce a sfruttare appieno le potenzialità del linguaggio cinematografico.

“La ragazza del quartiere” è un film che parla di amore e di perdita, di speranza e di disillusione, ma soprattutto di due persone che cercano disperatamente di trovare un posto nel mondo, anche se solo temporaneo. È un’opera toccante e profondamente umana, resa ancora più potente dalle performance straordinarie di Mitchum e MacLaine, e dalla regia impeccabile di Wise.

Se non l’avete ancora visto, vi consiglio caldamente di farlo. È uno di quei film che, una volta terminati, vi lasciano un segno profondo, facendovi riflettere sulle complessità delle relazioni umane e sulla fragilità dell’esistenza.

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“Fahrenheit 451” di François Truffaut

(UK,1966)

Questo è un film che, ad ogni sua visione, ci costringe a riflettere sulla natura umana e sul potere della conoscenza. Tratta dall’omonimo e bellissimo romanzo di Ray Bradbury, questa pellicola rappresenta un unicum nella carriera di François Truffaut, il maestro della “Nouvelle Vague”, che con questo lavoro si confronta per la prima volta con la fantascienza, con la lingua inglese e con il colore.

In un futuro distopico, i libri sono banditi e i pompieri, invece di spegnere incendi, li appiccano per distruggere ogni traccia di sapere e di pensiero critico. Il protagonista, Guy Montag, interpretato da un magnetico Oskar Werner, è un pompiere devoto al suo lavoro, finché un incontro fortuito con la vivace e curiosa Clarisse, portata sullo schermo da una straordinaria Julie Christie, lo spinge a mettere in dubbio tutto ciò in cui crede.

Truffaut ci regala un’opera visivamente ipnotica, dove il colore diventa protagonista tanto quanto i personaggi. L’uso del rosso, simbolo di distruzione ma anche di passione, domina la scena, sottolineando la tensione tra un mondo che brucia la cultura e la nascente consapevolezza di Montag. La scenografia è minimalista, quasi alienante, a sottolineare la sterilità emotiva di una società che ha sacrificato l’anima sull’altare della conformità.

Fondamentale è anche la colonna sonora firmata da Bernard Herrmann, musicista fra i preferiti del maestro Alfred Hitchcock, che Truffaut cita e omaggia in quasi ogni scena. La loro personale amicizia, nata da un’intervista che il cineasta francese gli fece per poi scrivere lo splendido “Il cinema secondo Hitchcock”, è parte integrante della storia del cinema.

Julie Christie offre una performance memorabile, incarnando sia Clarisse, l’elemento di disturbo che accende la scintilla del dubbio in Montag, sia Linda, la moglie apatica e sottomessa al sistema. Questo doppio ruolo non solo dimostra la versatilità dell’attrice, ma rafforza il contrasto tra la vita che Montag desidera e quella a cui è stato condannato.

La scelta di Truffaut di adattare “Fahrenheit 451” di Bradbury può apparire paradossale per un regista che ha costruito la sua carriera su storie intime e umane. Tuttavia, è proprio questa distanza dall’opera originale che permette a Truffaut di esplorare nuovi territori cinematografici, pur mantenendo la sua sensibilità poetica. Non è un film di fantascienza nel senso convenzionale del termine, ma piuttosto una riflessione sull’alienazione, sull’individualismo e sulla resistenza all’omologazione.

Ma sopratutto “Fahrenheit 451” è un inno immortale alla lettura e all’amore per i libri, libri che per lo stesso Truffaut furono, durante la sua difficile adolescenza, l’unico vero punto fermo e faro illuminante. Le semplificazioni narrative rispetto al romanzo di Bradbury non sono mancanze, ma scelte consapevoli che orientano il film verso una dimensione più simbolica che didascalica.

Se il ritmo del film può risultare lento per alcuni, questa lentezza è funzionale alla costruzione di un’atmosfera di crescente oppressione e disagio. Truffaut non cerca di catturare lo spettatore con effetti speciali o colpi di scena, ma lo invita a immergersi in un mondo in cui l’assenza di cultura diventa la vera minaccia, più inquietante di qualsiasi mostro fantascientifico.

In definitiva, “Fahrenheit 451” non è solo un adattamento di un romanzo celebre, ma un’opera d’arte a sé stante, che porta l’impronta inconfondibile del grande cineasta francese. Un film che sfida il pubblico a interrogarsi sul valore della cultura e della libertà in un’epoca di crescente conformismo. Truffaut dimostra che la fantascienza, nelle mani giuste, può essere uno strumento potente per esplorare le profondità dell’animo umano e per denunciare le derive della società contemporanea.

“Fahrenheit 451” è un film che va visto, non solo per la sua bellezza visiva o per le interpretazioni dei suoi attori, ma perché ci ricorda quanto sia importante difendere il diritto di pensare, di leggere, di sapere. Truffaut ci consegna un monito potente, un invito a non spegnere mai quella scintilla di curiosità e ribellione che ci rende veramente umani, un monito mai obsoleto e oggi, drammaticamente, tanto attuale.

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